lunedì 26 settembre 2011

La panchina in centro

L’ho visto.
Aveva quella busta in mano.
Passavo e mi ha inchiodato nell’unico modo che poteva: parlando.
Mi ha detto:”… perché a volte non c’è altro modo per comunicare e due, magari, non si parleranno mai. Allora si prende e si lascia una lettera qui, ogni giorno, senza fretta, senza ansie. Sempre nel solito posto, incastrata tra le stecche verdi della panchina. Sulla quale, forse, quella persona si siederà oggi. O domani. O mai. In questo caso sarà come aver suonato alla porta di una casa vuota. Ma almeno le parole usciranno, perché davvero non ce la facevano più a restare nella scatola del non detto.”
L’ha aperta, ha sfilato il foglio, ha detto quello che doveva per liberarsi e non esplodere. C’era il sole. C’ero io. Non ero la persona, però ero pur sempre qualcuno. Con due orecchie e forse un cuore per accogliere quelle parole. Un po’ come un corriere che riceve un pacco. Solo che a me lui non ha dato indirizzi da cercare.
La voce usciva piano. Forse stanca dei troppi discorsi fatti da solo in una stanza, magari piccola, con uno specchio, un tavolo, qualche quadro…
Mi leggeva la sua lettera per lei:

“Ti ho scelto. Ma non è un’imposizione. Capita. La volontà entra in gioco solo dopo, quando ci si impegna a non perdersi e soprattutto a ritrovarsi. Perché le persone non restano, non lì sempre accanto a te. Devi aver voglia di cercarle, di mischiarti un po’ a loro. Poi se ne vanno. Ma il bello è proprio quello: sennò non potrebbero tornare. E a me piace quando qualcuno ritorna. Non mi conosci. Per questo te lo dico.
Che amo la strada, ma di sera, quando le luci artificiali si mischiano agli ultimi rantoli di sole. È bella perché sa di ritorno. Senza quello, al mattino, non potrei ripartire. E per me, partire è segno che  ancora la curiosità non mi ha abbandonato e qualche speranza ce l’ho.
Mi piace la potenza del mare quando fa male. Non lo fa apposta: è il gioco delle parti e lui è forte perché deve. Ma apprezzo anche la sfida della rugiada al mattino, quando lotta per non evaporare col calore del giorno. Mi ricorda l’eterna sfida del mondo. Questo mondo m’intriga, anche se brucia da sempre e da sempre esplode. Lo guardo, lo respiro e lo difendo con l’arma dell’indignazione. Spesso resto in silenzio. Ci pensano le parole che ho dentro a far rumore. Guardo negli occhi, specie quando si voltano altrove. Perché mi stanno indicando, loro malgrado, qualcosa d’altro.
Cerco gerani dentro i cortili abbandonati, cammino in periferia ed abito con la memoria i ruderi del vecchio zuccherificio, i magazzini della vetreria e la polvere mi sembra come il velo di una donna che nasconde le rughe. Del cielo amo il fatto che esista. Che sia stellato cupo poi, non m’importa. C’è e mi somiglia. Anche quando lo spio  dalla fessura di una trave spezzata. A suo modo è un tetto.
Il sesso lo conosco. Somiglia all’amore e forse lo è. La complicità l’ho creata, dove non conta, dove si poteva. Perché anche un parcheggio diventava l’universo quando lui lo abitava con me.
I capelli, come le foglie, cambiano colore. Ma il bianco non mi dispiace. No, non indica purezza, è ciò che resta dopo aver sperimentato la vita e gli altri colori, ormai, se ne sono andati, riflessi come da uno specchio.
Quindi l’arcobaleno l’ho vissuto. Alcuni giurano che io lo abbia pure cavalcato. Ci sono scivolata sopra, questo sì, come una bambina.
So cos’è un perché. Le risposte, invece, le temo.
Seguo le cicale d’estate, amiche finché cantano. Poi un giorno, all’improvviso, più nulla. Ma il senso era questo: diglielo, gridando al mondo, forte il tuo nome. C’è solo da imparare, non da essere tristi.
Amo l’idea che ho di te.
Ti vedo ma come ti vorrei io.
Non ti conosco. E mi cullo in questo immaginare. Se un giorno ti venisse voglia di fermarti, fallo su questa panchina.
Guardati attorno ma soprattutto guarda nell’angolo. Aprila, questa busta, non temere. Altri lo avranno già fatto prima, per curiosità e dopo l’avranno gettata. Non era per loro. Per questo ogni sera io passo e ne lascio una nuova ma sempre uguale. Aprila e pensami. Immaginami come credi. Riconosciti nelle mie parole. Poi vattene dove devi, dove vuoi. A me basta che torni a fare l’amore con me, qualche volta, qui seduto dove prima ero io. Mi basta saperti. L’attesa è spesso più bella del suo compimento.”

Quando stamani sono passata di lì, la busta non c’era più. Ho sempre pensato che le parole, prima o poi, sappiano raggiungere coloro cui erano destinate.

Basta crederci.

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