giovedì 24 novembre 2011

shadows

And again, again this dream that after so many years apart two hearts beat in unison, having forgotten the torments endured. Still the same color of beloved eyes, still the same dear smile... but suddenly the daylight goes out and everything grows so unsteady and you're not there...and I rush to the chapel at the edge of the park, the moon shines brightly in the sky, weeping by the crypt, I cry out, and knock on the iron door, having run up the low stairs... and on the wall, before me, bound by a common fate, I see two interlaced shadows.

lunedì 14 novembre 2011

Così, a poco a poco

Non c'è amore che non riconosca l'inevitabilità di certi abbandoni.
Continuamente le nostre promesse di dedizione, i vincoli di parentela e di
fedeltà che illudiamo, vengono smentiti dal bisogno che ciascuno ha di
tornare a vivere per conto suo.
Tutto è relativo e compatibile.
L'uomo, più tardi, conoscerà l'amara consolazione di quelli che, per il
fatto di volergli bene, crederanno di dover esercitare sulla sua vita una
sopraintendenza gratuita.

... Accorgersi che quel che ci ha tanto preoccupati non era che un fatto fin
troppo naturale. Sprecare tanta meraviglia per arrivare a riconoscere che
non c'è niente di straordinario in una cosa che accade...
L'animale ferito è una preda difficile da riavere. Così, a poco a poco, ho
finito anch'io per sentirmi nel mondo un essere malizioso sempre in pericolo
e in sospensione. I miei gusti sono inquieti. Il mio modo di vedere e di
partecipare è supremamente evasivo. Tutti i miei istinti più forti, i miei
esperimenti più sani non sono che delle fughe verso altre arie e scorci di
prospettive...

Mi piace la simpatia che arrossisce di per sé e scappa borbottando. Gradisco
le attenzioni presupposte e dimenticate...
...Perché io ho ecceduto nella carne fino all'ironia. Ho bevuto come se non
mi dovessi più risvegliare. Perché io so cosa vuol dire far esperienza d'una
tentazione e liberarsi dal male a prezzo di tante cadute...

sabato 12 novembre 2011

...

Viaggia insieme a me, io ti guiderò. E tutto ciò che so te lo insegnerò, finché arriverà il giorno in cui tu riuscirai a fare a meno di me. Io ti porterò dove non sei stato mai e ti mostrerò le meraviglie del mondo. E quando arriverà il momento in cui andrai tu, tu guiderai, tu lo insegnerai ad un altro, un altro come te. ♥

La parola ...

La parola. Quella. Quando arriva, ucciso il silenzio e sconfitta l'esitazione.

Resti lì, immobile, nell'eco della tua voce che risuona, diffusa come nel più ampio degli spazi... e sei soltanto in una stanza, nemmeno la più grande.

Le tue labbra come spade di vittoria, calde, umide in tremore, l'hanno detta, impressa sulle cose, scatenata attorno all'improvviso. Le tue labbra prima incarcerate, serrate a orgoglio nel dolore, le tue labbra prima socchiuse e dopo aperte e poi vibranti e infine accese in voce.

Terribile, densa, liberata.

Parola che risuona pur detta una sola volta, riflessa dalla porta, dai muri, moltiplicata dai vetri alle finestre, respinta da cornici e vasi, rimbalzata dai divani. Parola in una stanza che a un tratto si riempie di attonito stupore, di un consueto che si smembra e cade lacerato.

Sa di te, quella parola, del tempo che ha covato nei meandri. La più vera che potevi, implosa a lungo, ogni volta che provavi a rintracciarla, ben nascosta, nel perbene quotidiano. Parola che rivela, che squarcia ciò che c'era, parola come un pugno quando serve.

Attonita espressione a te di fronte.

E un godimento lieve che risale, stordimento e onnipotenza insieme, mentre ancora ti risenti pronunciarla e non ci credi, non ci credi che l'hai detta.

E gli occhi, anche gli occhi ora sanno osare e guardare e penetrare quel silenzio. Gli occhi dentro la voce per amplificarla, occhi in soccorso delle labbra, vividi e scuri come di cieli lontani che osservi di notte senza capire cosa c'è oltre quel buio.

Ora hai uno sguardo e la parola.

Ora hai quello che serviva.

Nulla, adesso, come prima.





Si chiama Fine.

E ci vuole un gran coraggio per dirla. Anzi no. Ci vuole solo un tempo che è finito, un posto che più non ti contiene e un nome che non sai pronunciare con l'amore che sentivi.

lunedì 7 novembre 2011

A …


A chi ha cambiato strada ma ha ancora voglia di raccontarmi i paesaggi che vede.
A chi viaggia sempre con me e non mi chiede mai la strada.
A chi mi trova quando non mi cerca.
A chi mi cerca senza trovarmi.
A chi mi ha dato il pacco … ma era di Natale.
A chi conosco da sempre e non vedo quasi mai.
A chi vedo sempre ma non conosco ancora.
A chi crede che accertarmi non vuol dire essere uguali.
A chi mi aspetta anche quando non arrivo e a chi giustamente se ne va.
A chi mi ha sorriso per un istante e non se n’è più andato dai ricordi.
A chi non mi ha sorriso perché era colpa mia.
A chi ha bussato e non serviva perché era già aperto.
A chi ha aperto senza bussare.
A chi mi ha mandato a quel paese perché sapeva che tanto l’avevo già visitato e mi ci muovo bene e anche a chi è venuto a farmi compagnia.
A chi mi ha visto quando non sapevo guardarmi.
A chi mi ha guardato e mi ha visto davvero.
A chi ho saputo a mia volta guardare perché tenere gli occhi chiusi costa troppa fatica.
A chi mi ha prestato qualcosa e poi non lo ha più voluto indietro.
A chi mi ha preso qualcosa pensando di rubare e invece mi ha alleggerito.
A chi ritrovo quando credevo di essermi persa.
A chi ho perso perché forse non c’eravamo mai trovati.
A chi amo senza chiedermi perché.
A chi mi ama senza chiedersi perché.
A chi dei perché se ne frega.
A chi mi fa domande difficili perché così non mi arrendo.
A chi è ancora qui perché al cielo non ci crede.
A chi dal cielo mi sorride di vento e sole.
A chi mi ha stretto la mano quando non sapevo più ascoltare la voce.
A chi ho colpito più forte che potevo perché era a me stessa che volevo fare male.
A chi c’è stato anche dopo quando gli altri se n’erano andati.
A chi sa bene che non si sa mai.
A chi mi merito ogni giorno e anche a chi non mi merito più.
A chi ho chiamato.
A chi non ho chiamato più.
A chi mi chiama “tesoro”.
A chi mi dice “sei la mia stella cometa”.
A chi mi dice “fai come ti pare”
A chi proprio non mi ha detto nulla.
A chi ho accarezzato a lungo perché la pelle dice di più.
A chi ho gridato contro tutto l’amore che posso e mi ha risposto col silenzio.
A chi il silenzio me lo ha insegnato.
A chi mi ha mostrato i granelli prima degli universi.
A chi mi trova le parole quando le ho finite e lo fa semplicemente guardandomi.
A chi mi dice “che bello sentirti” e non “non ti fai sentire mai”.
A chi mi regalato un morso del suo tempo per nutrirmi quando la mia fame era diversa.
A chi amo più di me stessa.
A chi amo più di me stessa.
A te.

domenica 6 novembre 2011

Danza

E te ne dirò

Non sai quanta bellezza c'è stata.

Bellezza arrivata di colpo, tra le voci consuete di sempre, a sfiancarle e spengerle.
Tanto che al confronto, quelle voci sembravano ormai i suoni più banali che io avessi mai sentito.
Che bellezza, dici?
Bellezza nata da un incontro.
Il nostro.
A pensarci, è rassicurante sapere che un incontro possa portare a tutto questo.
Ti dà la forza di accettare quelli che poi farai.
E' la perfezione, frutto d'imperfetti.
E' costanza d'armonie che non si arrendono alle nostre stonature.

Bellezza, ti dicevo, che ha avuto forma di voce.

Prima erano parole scritte che mi arrivavano, curiose e magnifiche,
racchiuse in un display di cellulare.
Imprigionate, direi, in quel breve spazio.
Perché ne traboccavano per senso ed impressione.
Lo superavano in effetto e splendore.

Poi è stato suono.
Si sono vestite di tono ed inflessione, hanno preso sfumature di sussurro e risata.
Una delle cose più accattivanti ed avvolgenti che io abbia mai ascoltato.
Era la voce che da sempre avrei voluto sentir dire parole.
E le stava dicendo.
E ne aveva scelte alcune per me.
Capisci?
Voce che mi parlava da un dove che non sapevo
Essenza da vestire come mi pareva.
E l'ho fatto.
L'ho anche battezzata a mio piacimento.

Per giorni, così.
Un tripudio di frasi, fantasie, incontri immaginati e talmente veri nel loro raccontarsi
che mi facevano paura.
Paura per non aver mai sentito niente del genere.
E che, sentendolo, lo avessi riconosciuto come soddisfacimento totale di un mio bisogno viscerale.
Capisci?
Incrociare per la prima volta una dimensione e capire all'istante che è la tua.
Oltre ogni spiegazione.
E comprendere così, per differenza, tutte le altre.
In un colpo solo.
Qualcosa che tocca sfere emotive e se ne frega del razionale.
Riesco a trasmetterti la sensazione di spiazzamento che comporta?
Riesci a sentire l'esplosione che ne è nata?

Una delle evenienze più incredibili che mi siano accadute.

Voce, quella, che pretendeva con misura ed eleganza spazio e priorità.
Voce di cieli lontani, più alti dei miei, che mi accoglievano pur senza conoscermi.
Voce che arrivava a sera, meglio se notte, a dirmi di sé.
Voce che ha riso con me.
E per la quale non ho dormito.
Dormire sarebbe stato perderla... perderne il gusto, il ricordo, l'impressione.

Tra l'andare ed il fermarsi, tra ciò che accade e quello che finisce,
quella voce è arrivata a me frutto di un errore,
dandomi molto più di quanto
abbia mai fatto ciò che definiamo giusto.

Ora tutto è sospeso.
Rimasto inesploso, congelato, inespresso
per ragioni che ignoro
e che mi portano a lottare.

Lotto per qualcosa di cui non conosco confini, volto, collocazione e senso.
Lotto senza strategia, armata di parole e distanze.
Lotto e te lo dico.
Perché tu puoi capire.
Puoi essermi fratello in questa circostanza,
puoi andare oltre i fatti ed i particolari...
Può bastarti il succo di ciò che ho provato.

Lotto.
E non sai quanto.
Lotto finché avrà senso.
Ed il senso, stavolta, è oltre ogni ragione logica.
Perché il dono inatteso che mi è arrivato è un prodigio.
E non posso sporcarlo con limiti terrestri.

Ti chiedo sostegno in questa lotta.
Appoggio che trascende il contatto,
ti chiedo di sperare per me
e di custodire il Viaggio che tento di fare
verso quella voce.

E te ne dirò.

giovedì 27 ottobre 2011

Vagando ancora ...


Perché mi risulti affascinante vorticare nei vari aspetti dell'esistenza, quasi senza appigli e con una costante attrazione verso l'orlo del cambiamento, non l'ho mai spiegato chiaramente a me stessa.

Però quando mi accade, vibro. Ed a me quella vibrazione dà un'energia indescrivibile. Una sottile inquietudine avvolge il basso ventre, una vaga vertigine annebbia la vista ed ecco che tutto ricomincia! La novità mi abbraccia e rapisce, la paura della fine appena avvenuta lascia il posto all'eccitazione di un altro inizio!

E si riparte come marinai, mezzi sbilenchi ed acciaccati, un po' bruciacchiati dal sole ma felici che quel sole ci sia, felici di ripetere nuovamente l'esperienza dell'ignoto. Oh, certo, arriveranno schianti negli scogli, delusioni, schiaffi in faccia e mal di mare... ma io che ci posso fare se quando vedo lo spettacolo meraviglioso del paesaggio, mi dimentico che sto sanguinando per le botte prese? Ed anzi quel sangue mi pare che sgorghi di meno, o anzi sta proprio smettendo di sgorgare.

L'idea che si possa ricominciare un numero infinito di volte, spaziando, mi fa sentire un po' disadatta a questo mondo ma sorella di chi ama sperimentare. Non so opporre resistenza all'onda che trascina. Dovrei, forse, per sopravvivenza, ma non lo faccio. Potrei morirne, lo so, ma sarebbe solo il dono estremo di me stessa, il tributo finale a quella bellezza...



Da me a te.

Dal centro al vertice e ritorno.

Da quiete a vortice ogni giorno.

domenica 23 ottobre 2011

Delle porte

Mi commuove la porta che scricchiola e si apre con difficoltà, la sua voce di ruggine mentre il cardine fa sciopero. 
Mi commuove il fatto che mi faccia entrare lo stesso, pur con quello sforzo. 
Porta che chiudendosi trasforma la stanza in nave, cabina, cellula a sé, spazio chiuso che contiene. 
Porta che aprendosi mi libera e allontana da chi resta.
Sulla porta s'infrangono parole.
Quelle che urliamo prima di sbatterla con forza.
Quelle mute di una preghiera prima che si apra. 
Perché quando bussi e ti dicono "Prego" non è un invito.
Parole mandate avanti per vigliaccheria o rispetto, come soldati stanchi in trincea. 
Ma gli ordini impartiti giacciono nelle fondine, dimenticati da tempo.
E il nemico al di là ha già cambiato faccia. E scenario di guerra.

Delle porte, quel che nascondono e le possibilità che creano. Il fatto che
obblighino la mano all'azione e la fantasia ad accendersi.
Delle porte, la voglia che ho di aprirle nonostante i divieti.
Dico grazie alle porte.
A quel loro mettersi in mezzo ogni volta.

Sonetto, all’ingannevole - Roberto Sanesi



Un calco d’aria. Attorno. E il freddo.
Ci puoi inserire un come, un quando.
Puoi dire io, tu… E spingere la porta
fino a schiacciare l’ombra. E’ ancora
un improbabile noi che vi s’annida:
la differenza, il fra, l’attimo acrobata, la
figura obliqua. Scava. Vi incontri
un forse corpulento, nòcciolo duro. Ora
ti strangola a memoria. Ti avverto.
Se ho visto correre attorno alle tue labbra
lo stercorario in amore, mentendo,
so che non mi ingannavo: era un cògito,
tenera falsa minuscola valanga
fra le chele vibranti di narciso.

giovedì 6 ottobre 2011

il mio essere vegetariana ...

http://www.scienzavegetariana.it/ricette/lista_ricette.php

Gli animali non sono cose da mangiare ma esseri senzienti con la nostra stessa capacità di soffrire, di amare la vita e di avere terrore della morte. Se gli animali non fossero in grado di soffrire, se non avessero paura della morte non fuggirebbero davanti al predatore.
La carne non è un alimento adatto all’essere umano strutturato anatomicamente e fisiologicamente a nutrirsi di frutta, semi e vegetali. Se l’uomo fosse un animale onnivoro avrebbe gli attributi adatti ad inseguire, arpionare, dilaniare la preda, oltre che un apparato digerente adatto a digerire la carne.
La carne è un alimento cadaverico, contiene putrescina, istamina, ammoniaca, adrenalina. Il terrore dell’animale dovuto alla mattazione, le malattie, oltre i molti medicinali somministrati agli animali come sulfamidici, cortisonici, ormoni, antibiotici ecc. che entrano nel metabolismo di chi mangia la carne causano un gran numero di malattie anche tumorali.
Se la carne fosse necessaria alla salute degli uomini come si spiega l’ottima salute dei vegetariani?.
La carne è un alimento estraneo al nostro organismo: abbassa le difese immunitarie lasciandoci inermi di fronte a qualsiasi infezione batterica o virale. Ogni pasto a base di carne sottrae al nostro organismo energia quanto 5 km di corsa.
Un’alimentazione sbagliata abbrevia la vita di un individuo: è come far viaggiare a gasolio un’automobile progettata per far funzionare a benzina. Se l’essere umano si alimentasse secondo la sua natura, come le altre specie animali potrebbe vivere 7 volte il suo periodo di sviluppo, cioè 130 anni, età raggiunta solo dalle popolazioni vegetariane.
Gli allevamenti intensivi inquinano il suolo, le falde acquifere, l’aria oltre che essere causa principale di disboscamento: un hamburger costa 5 mq di foresta.
Un manzo consuma derrate quanto 12 persone. I campi di concentramento e di sterminio non possono essere condannati e maledetti solo se le vittime sono esseri umani e giustificati e benedetti se invece i condannati sono gli animali.
La lunga sofferenza degli animali negli allevamenti intensivi e l’agonia dei trasporti si concludono negli orrori dei mattatoi da dove esce il cibo maledetto.
La carne scatena nell’uomo l’istinto dell’aggressività e della violenza, della sopraffazione del più debole, oltre l’angoscia, l’inquietudine, l’instabilità psichica. Finché l’uomo si alimenterà come gli animali feroci non può che avere la natura degli animali predatori.
Mangiare la carne è un’azione crudele: è come se una razza sentendosi superiore, allevasse noi e i nostri figli a scopo alimentare. Se all’uomo non importa la sofferenza degli animali perché dovrebbe importare agli angeli la sofferenza degli uomini?
L’alimentazione carnea incide in modo pesante sulle finanze individuali, famigliari e collettive. Con il costo di un kg di carne si possono acquistare sostanze vegetali 10 volte superiore.
Solo con l’alimentazione vegetariana è possibile sfamare tutta la popolazione mondiale e scongiurare le tensioni internazionali che nascono da gravi crisi alimentari. I terreni destinati a prodotti vegetali producono un quantitativo 10 volte superiore alla carne.
Rifiutando la carne ci si dispone a vivere secondo la legge dell’amore universale enunciata dai grandi uomini di pensiero e di spirito di ogni tempo e paese che hanno esteso il concetto di prossimo ed il comando non ammazzare dall’uomo ad ogni essere senziente.
Gli animali più forti, più longevi, più prolifici e più miti sono vegetariani. la loro forza sconfessa la teoria che sono le proteine della carne a dare vigore. Da dove traggono questi animali le proteine per formare le loro possenti masse muscolari?
L’alimentazione vegetariana dispone l’essere umano alla mitezza, alla serenità, alla tolleranza, al benessere psicofisico, alla pace. L’uomo è ciò che mangia: se si nutre di violenza e di morte non può che subire gli effetti delle sue azioni secondo la legge di causa-effetto.
Con l’alimentazione vegetariana l’uomo ritorna al piano originale di Dio per l’uomo prima del peccato, secondo il comando di Genesi 1,29: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme ed ogni albero in cui è frutto saranno il vostro cibo...” Se Dio avesse autorizzato l’uomo a mangiare la carne trascurando la sofferenza delle sue stesse creature sarebbe un dio ingiusto e crudele, dal momento che l’uomo può benissimo assicurare il suo sostentamento alimentare senza spargimento di sangue.
La realizzazione del regno di Dio passa necessariamente attraverso la pace instaurata tra gli esseri umani e tra questi e tutte le altre creature. Se l’uomo arrivasse ad abolire ogni violenza tra i suoi simili ma continuasse a torturare gli animali, a sfruttarli,a massacrarli nei mattatoi, la terra continuerebbe ad essere un inferno per gli animali e l’inferno e il paradiso non possono convivere nello stesso luogo.
L’indifferenza verso il dolore degli animali ed il conseguente disprezzo della loro vita abitua l’uomo a convivere con l’idea della violenza e della sopraffazione del più debole rendendolo insensibile e crudele anche nei confronti del suo stesso simile. Se fossi tu ad essere torturato o mutilato da qualcuno che non esita anche ad ucciderti per di procurarsi un piacere, certo non accetteresti di buon grado la legge del più forte.
Se si accetta come regola di vita la legge del “pesce grosso che mangia quello piccolo” allora occorre anche accettare di buon grado il sopruso dei prepotenti, le ingiustizie dei disonesti, la violenza dei criminali, l’oppressione degli invasori. Solo dal rispetto del sacro valore della vita e dalla capacità di condividere l’altrui sofferenza può nascere una nuova coscienza umana in grado di realizzare un mondo migliore.

lunedì 3 ottobre 2011

"La vera vita di Sebastian Knight" di V. Nabokov

Nabokov scrisse questo romanzo a Londra nel 1940, mentre viveva doppiamente in esilio, visto che, fuggito dalla rivoluzione russa nel 1917, scappava adesso anche da Berlino e dalla Germania, dove aveva vissuto per molti anni e dove il nazismo montava ormai inesorabilmente. 

Era la prima volta che Nabokov scriveva in inglese. Fino a quel momento, per le sue opere letterarie aveva utilizzato il russo, la sua lingua materna. Ricordiamoci, per inciso, che Nabokov aveva appreso l'inglese ed il francese sin da bambino. 
Il romanzo non venne pubblicato che nel 1941 negli Stati Uniti, in cui Nabokov trascorse poi quasi tutto il resto della sua vita. 

Nonostante abbia letto in giro qualche commento in cui questo romanzo viene definito "una detective story" non ho alcuna esitazione a raccontarne, anche se per sommi capi, la trama. Perchè si, è vero che si tratta di una detective story, però scritta alla maniera di Nabokov, e cioè ironicamente capovolta. 

Sebastian Knight, noto scrittore, muore prematuramente per una malattia di cuore. Il suo fratellastro si rende conto in questa occasione di averlo, in realtà, conosciuto molto poco e decide di fare delle ricerche su di lui e di scriverne la biografia. Il libro che noi abbiamo tra le mani è proprio il risultato del suo lavoro. 

Sebastian e il narratore sono nati entrambi in Russia, figli dello stesso padre ma di madri diverse. 
Allo scoppio della rivoluzione sono costretti a scappare in Francia. Sebastian, da parte sua, va a studiare a Londra e da allora i due fratelli non si incontrano che molto sporadicamente ad intervalli anche di anni. 

L'intento dichiarato all'inizio è, per il narratore, una sorta di riabilitazione di Sebastian perchè Sebastian, dopo avere ottenuto un certo successo, è al presente considerato uno scrittore oscuro, che pratica una scrittura troppo sperimentale, una personalità troppo individualista, narcisistica, estraneo alla propria epoca. "Se gli avessero detto di scrivere come Mr. Ognuno avrebbe scritto come nessuno". Il narratore, inoltre, è sempre stato attirato da Sebastian e sin dall'infanzia nutre per lui una grande ammirazione. Ma Sebastian, di sei anni più anziano di lui, "troppo giovane per essere una guida, troppo anziano perchè si possa stabilire una complicità", non ha mai voluto comunicare con lui. Tuttavia, al termine della sua vita, gli ha scritto infine una lettera con cui reclama la sua presenza. Non ha rivelato ad alcuno di essere sul punto di morire, e il suo fratellastro rimane per lui l'unica famiglia. Ma per un tragico equivoco, anche quest'appuntamento risulta mancato: il narratore si ritrova, senza saperlo, a vegliare in ospedale per una notte intera al capezzale di un altro paziente ignorando che Sebastian, invece, è morto il giorno prima. 

Il narratore scoprirà nel corso delle sue ricerche la vita di studente e gli esordi letterari di suo fratello. Incontrerà il suo "segretario", Mr. Goodman, un perfetto imbecille che è l'antitesi di Sebastian e che ne ha scritto una insulsa biografia. Cercherà anche di ritrovare la donna che per molto tempo ha condiviso la sua esistenza ed il cui nome è Clara Bishop (Bishop in inglese significa "vescovo" ed è --- leggo in una nota della traduttrice -- l'equivalente inglese dell'alfiere degli scacchi). Incontrerà anche un poeta, Sheldon, la signorina Pratt un'amica di Clara e rincorre per mezza Europa una misteriosa donna russa di cui Sebastian è stato innamorato negli ultimi anni della sua vita. Tutti questi personaggi gli forniscono elementi per cercare di comporre il puzzle della vita di Sebastian Knight in un quadro coerente, il narratore arriva perfino a farsi aiutare da un detecive professionista. Rilegge con attenzione tutti i romanzi di Sebastian dei quali uno in particolare, Oggetti smarriti contiene molti elementi biografici. 

Questo percorso di (ri)scoperta del fratellastro è vissuto dal narratore con molto humor, stupore ed ironia. La scrittura di Nabokov è, come sempre, una meraviglia di pirotecnici giochi linguistici e frasi fulminanti. Come quella di Sebastian, del quale "non [è] possibile copiare lo stile perchè il suo modo di scrivere corrispondeva al suo modo di pensare, che era un'abbagliante successione di aperture, e non è possibile scimmiottare un'apertura, perchè si è costretti a colmarla in un modo o nell'altro". 
Lo spietato ritratto che Nabokov fa di Mr. Goodman la cui "faccia rosea, larga e flaccida [...] era, ed è, singolarmente simile ad una mammella di vacca" è da antologia, e le schiere di affezionati lettori del grande scrittore russo-americano non possono non riconoscere che in questo personaggio Nabokov ha riversato tutto il disprezzo e l' avversione che nutre per i critici letterari, gli scrittori ed i biografi da lui considerati di mezza tacca. 

Ma alla fine, il narratore riesce effettivamente ad avvicinarsi al "vero" Sebastian"? A ricostruire "la vera vita di Sebastian Knight"? Una serie di ritratti e qualche sequenza di vita ricostruita sono, in realtà, un magro bottino. Il narratore è obbligato a completare il ritratto soggettivamente, comincia a esprimersi in prima persona, quello che pensa lui e quello che forse ha pensato Sebastian si confondono, e "la maschera di Sebastian [gli] rimane incollata al viso, la somiglianza non potrà esser lavata via. Io sono Sebastian, o Sebastian è me, o forse siamo tutti e due qualcuno che nè l'uno nè l'altro conosce". 

Teniamo ben presente che lungo tutto il corso del romanzo il narratore non dice mai come si chiama. L'unico indizio che Nabokov ci fornisce è l'iniziale del nome: il narratore si chiama "V." e sappiamo che non porta lo stesso cognome di Sebastian. 
Sappiamo infatti che, divenuto adulto e scrittore, Sebastian aveva adottato come cognome quello della madre da ragazza, Knight, un vocabolo che in inglese indica il cavallo degli scacchi.


Ancora una volta Nabokov gioca a scacchi. Con i suoi personaggi, e con noi lettori. Il romanzo è costituito tutto da una serie di "mosse" che il narratore fa per conoscere la vera vita di Sebastian Knight, di personaggi-pedina che vengono abilmente mossi sulla scacchiera-intreccio-tessuto narrativo ed ancora un volta, a poco a poco, i piani temporali si sovrappongono, il romanzo comincia dalla fine, e finisce ripartendo dall'inizio.
L'episodio della veglia notturna al capezzale della persona sbagliata , seppure posto nel finale, precede tutti gli altri eventi, e anzi costituisce il motore stesso della ricerca.
L'Io narrante è sempre più profondamente coinvolto nella trama e, nonostante la distanza di tempo e di spazio che lo ha sempre tenuto lontano dal fratellastro (non si sono visti per anni, abitavano in città d'Europa molto distanti tra loro) assistiamo ad un avvicinamento di identità che in alcuni momenti diventa vera e propria fusione, o meglio con-fusione.

"Io sono Sebastian, o Sebastian è me, o forse siamo tutti e due qualcuno che nè l'uno nè l'altro conosce"

Se, tra i romanzi di Sebastian riletti dal narratore, Oggetti smarriti è quello più ricco di riferimenti autobiografici espliciti, l' ultimo, L'Asfodelo incerto è forse quello che racchiude la chiave (se di chiave si può parlare) del romanzo di Nabokov che stiamo leggendo: "un uomo sta morendo: lo si sente andare a fondo per tutto il libro; il suo pensiero e i suoi ricordi pervadono il tutto in maniera più o meno nitida [...]. L'uomo è il libro; il libro stesso ansima e muore», gli altri personaggi, invece, sono solo «commenti al tema principale» e come tali hanno un ruolo marginale."

Nabokov, come scrive giustamente Manganelli nel breve ma denso saggio su questo romanzo, "è interessato non tanto alla narrazione quanto al programma, al disegno del romanzo, la sua macchina".

La conoscenza dell'altro non può forse passare che attraverso la stesura di un romanzo ma poichè noi sappiamo che per Nabokov la "parte migliore della biografia di uno scrittore non è il catalogo delle sue avventure, ma la storia del suo stile" come scriverà molti anni dopo a proposito della sua propria vita in Autres rivages (Parla, ricordo), la biografia di Sebastian Knight non può che essere la storia del suo stile.

Parafrasando lo stesso Nabokov, potremmo anche noi dire che lo scrittore Sebastian Knight è lo stesso scrittore Nabokov, il creatore dello stesso Sebastian e del suo aspirante biografo la cui iniziale "V." sta forse per Vladimir.

Il travestimento, la mistificazione, l'errore, il gioco di specchi, il fantasmatico e soprattutto la maschera sono ancora una delle caratteristiche dell'opera di Nabokov e questo libro si può leggere anche come una sorta di falsa autobiografia in cui lo scrittore  si è divertito a mescolare molti dettagli ed aspetti della sua storia personale con altri che con Nabokov c'entrano nulla.

Anche se la detective story di cui parlavo all'inizio è costellata di piste che sono come vicoli ciechi, di mosse che si rivelano false, di errori e insensatezze, se la ricerca della verità su Sebastian Knight si rivela "un brancolare senza speranza tra cose sfuggenti", anche se la conoscenza approfondita di un'altra realtà umana è irrealizzabile, e soprattutto non bisogna essere troppo sicuri di "apprendere il passato dalle labbra del presente", La vera vita di Sebastian Knight non è affatto un romanzo deprimente, tutt'altro.

Risulta invece, come ha  ben scritto Stacy Schiff, la biografa  di Véra Nabokov "uno dei libri più giocosi di Nabokov"

lunedì 26 settembre 2011

La panchina in centro

L’ho visto.
Aveva quella busta in mano.
Passavo e mi ha inchiodato nell’unico modo che poteva: parlando.
Mi ha detto:”… perché a volte non c’è altro modo per comunicare e due, magari, non si parleranno mai. Allora si prende e si lascia una lettera qui, ogni giorno, senza fretta, senza ansie. Sempre nel solito posto, incastrata tra le stecche verdi della panchina. Sulla quale, forse, quella persona si siederà oggi. O domani. O mai. In questo caso sarà come aver suonato alla porta di una casa vuota. Ma almeno le parole usciranno, perché davvero non ce la facevano più a restare nella scatola del non detto.”
L’ha aperta, ha sfilato il foglio, ha detto quello che doveva per liberarsi e non esplodere. C’era il sole. C’ero io. Non ero la persona, però ero pur sempre qualcuno. Con due orecchie e forse un cuore per accogliere quelle parole. Un po’ come un corriere che riceve un pacco. Solo che a me lui non ha dato indirizzi da cercare.
La voce usciva piano. Forse stanca dei troppi discorsi fatti da solo in una stanza, magari piccola, con uno specchio, un tavolo, qualche quadro…
Mi leggeva la sua lettera per lei:

“Ti ho scelto. Ma non è un’imposizione. Capita. La volontà entra in gioco solo dopo, quando ci si impegna a non perdersi e soprattutto a ritrovarsi. Perché le persone non restano, non lì sempre accanto a te. Devi aver voglia di cercarle, di mischiarti un po’ a loro. Poi se ne vanno. Ma il bello è proprio quello: sennò non potrebbero tornare. E a me piace quando qualcuno ritorna. Non mi conosci. Per questo te lo dico.
Che amo la strada, ma di sera, quando le luci artificiali si mischiano agli ultimi rantoli di sole. È bella perché sa di ritorno. Senza quello, al mattino, non potrei ripartire. E per me, partire è segno che  ancora la curiosità non mi ha abbandonato e qualche speranza ce l’ho.
Mi piace la potenza del mare quando fa male. Non lo fa apposta: è il gioco delle parti e lui è forte perché deve. Ma apprezzo anche la sfida della rugiada al mattino, quando lotta per non evaporare col calore del giorno. Mi ricorda l’eterna sfida del mondo. Questo mondo m’intriga, anche se brucia da sempre e da sempre esplode. Lo guardo, lo respiro e lo difendo con l’arma dell’indignazione. Spesso resto in silenzio. Ci pensano le parole che ho dentro a far rumore. Guardo negli occhi, specie quando si voltano altrove. Perché mi stanno indicando, loro malgrado, qualcosa d’altro.
Cerco gerani dentro i cortili abbandonati, cammino in periferia ed abito con la memoria i ruderi del vecchio zuccherificio, i magazzini della vetreria e la polvere mi sembra come il velo di una donna che nasconde le rughe. Del cielo amo il fatto che esista. Che sia stellato cupo poi, non m’importa. C’è e mi somiglia. Anche quando lo spio  dalla fessura di una trave spezzata. A suo modo è un tetto.
Il sesso lo conosco. Somiglia all’amore e forse lo è. La complicità l’ho creata, dove non conta, dove si poteva. Perché anche un parcheggio diventava l’universo quando lui lo abitava con me.
I capelli, come le foglie, cambiano colore. Ma il bianco non mi dispiace. No, non indica purezza, è ciò che resta dopo aver sperimentato la vita e gli altri colori, ormai, se ne sono andati, riflessi come da uno specchio.
Quindi l’arcobaleno l’ho vissuto. Alcuni giurano che io lo abbia pure cavalcato. Ci sono scivolata sopra, questo sì, come una bambina.
So cos’è un perché. Le risposte, invece, le temo.
Seguo le cicale d’estate, amiche finché cantano. Poi un giorno, all’improvviso, più nulla. Ma il senso era questo: diglielo, gridando al mondo, forte il tuo nome. C’è solo da imparare, non da essere tristi.
Amo l’idea che ho di te.
Ti vedo ma come ti vorrei io.
Non ti conosco. E mi cullo in questo immaginare. Se un giorno ti venisse voglia di fermarti, fallo su questa panchina.
Guardati attorno ma soprattutto guarda nell’angolo. Aprila, questa busta, non temere. Altri lo avranno già fatto prima, per curiosità e dopo l’avranno gettata. Non era per loro. Per questo ogni sera io passo e ne lascio una nuova ma sempre uguale. Aprila e pensami. Immaginami come credi. Riconosciti nelle mie parole. Poi vattene dove devi, dove vuoi. A me basta che torni a fare l’amore con me, qualche volta, qui seduto dove prima ero io. Mi basta saperti. L’attesa è spesso più bella del suo compimento.”

Quando stamani sono passata di lì, la busta non c’era più. Ho sempre pensato che le parole, prima o poi, sappiano raggiungere coloro cui erano destinate.

Basta crederci.

domenica 25 settembre 2011

Dea

l'Amore...


Non t'amo più... È un finale banale.
Banale come la vita, banale come la morte.
Spezzerò la corda di questa crudele romanza,
farò a pezzi la chitarra: ancora la commedia perché recitare!
Al cucciolo soltanto, a questo mostriciattolo peloso, non è dato capire
perché ti dai tanta pena e perché io faccio altrettanto.
Lo lascio entrare da me, e raschia la tua porta,
lo lasci passare tu, e raschia la mia porta,

C'è da impazzire, con questo dimenio continuo...
O cane sentimentalone, non sei che un giovanotto...
Ma io non cederò al sentimentalismo.
Prolungar la fine equivale a continuare una tortura.

Il sentimentalismo non è una debolezza, ma un crimine
quando di nuovo ti impietosisci, di nuovo prometti
e provi, con sforzo, a mettere in scena un dramma
dal titolo Ottuso "Un amore salvato".

È fin dall'inizio che bisogna difendere l'amore
dai "mai" ardenti e dagli ingenui "per sempre! ".
E i treni ci gridavano: "Non si deve promettere! ".
E i fili fischiavano "Non si deve promettere! ".

I rami che s'incrinavano e il cielo annerito dal fumo
ci avvertivano, ignoranti presuntuosi,
che è ignoranza l'ottimismo totale,
che per la speranza c'è più posto senza grandi speranze.

È meno crudele agire con sensatezza e giudiziosamente soppesare gli anelli
prima di infilarseli, secondo il principio dei penitenti incatenati.
È meglio non promettere il cielo e dare almeno la terra,
non impegnarsi fino alla morte, ma offrire almeno l'amore d'un momento.

È meno crudele non ripetere "ti amo", quando tu ami.
È terribile dopo, da quelle stesse labbra
sentire un suono vuoto, la menzogna, la beffa, la volgarità
quando il mondo falsamente pieno, apparirà falsamente vuoto.

Non bisogna promettere... L'amore è inattuabile.
Perché condurre all'inganno, come a nozze?
La visione è bella finché non svanisce.
È meno crudele non amare, quando dopo viene la fine.

Guaisce come impazzito il nostro povero cane,
raspando con la zampa ora la mia, ora la tua porta.
Non ti chiedo perdono per non amarti più. Perdonami d'averti amato.

Poiettili buoni

Aveva le cartucce.
Mancava la mira.
Così l'aria è rimasta quella di prima,
intatta.
Nessuno ha sparato.
Nessuno colpito.
La verità è che gli tremano sempre le mani quando deve amare o mirare.
La verità è che se la notte è calda come il giorno, allora rischia di
sbagliare.
Così la sospensione è d'obbligo.
E il sopravvissuto, ignaro d'esserlo, era anche più bello di prima.
Scampato al pericolo, stava intatto
nel buio falciato dai lampioni,
stava buono nel ritmo di sempre.
Il cecchino, rimasto cristallo nell'implosione,
disoccupato per sua colpa,
era immobile, castrato a metà.
Pieno d'inutile polvere nera,
di parole senza grilletto.
C'era gente.
C'è sempre gente prima di un'esecuzione.
Gente che potrebbe dire "l'ho visto, ha sparato nel mucchio"
ma il mucchio è solo un pretesto
per chi non vuole vedere l'unica faccia che conta.


E quando il cecchino è passato davanti alla vetrina
e il riflesso caduto lì sopra
somigliava troppo alla mia faccia,
ha capito che per sparare
servono sere più fresche,
serve un vento migliore e notturno
che salvi le mani e la voglia di fare.

Abbracci


Ci sono abbracci più forti della storia che cercano di contenere.
Abbracci che non dai, che trattieni nei nervi, nei muscoli.
Pericolosi. Restano nascosti nell'ombra del "non si può", riversi nel dubbio del "se poi...".
Allora diventano sorrisi.
E sguardi.

Chi sei non conta,
mi porterai
di tempo in tempo
dove tu sai,
negli occhi dentro
dove vorrai.

Così quei due si dicono in silenzio, scambiandosi lo sguardo da opposti angoli del locale.
Che abbracciarsi è troppo, abbracciarsi è per chi si conosce già. E' un atto di appartenenza.
Viaggiare non è orientarsi, è perdersi. Viaggiare è coprire la distanza tra due sgabelli, una sera che non conta quando. E' dirsi un mondo mentre suona una canzone. Mondo vero o inventato a che serve saperlo, gli occhi dicono la vita come ci pare che sia, non com'è.
Viaggiare è fare medesimo giro tra il bancone e il bicchiere, tra le dita e il non dire, andando al contrario delle mappe consuete del conoscersi.
Manca la coltre di fumo che c'era una volta a nascondere il sorriso che d'un tratto, forse, apparirà. E mancando quel fumo, la bocca splenderà immensa fino al suo punto estremo d'espressione, nuda, indifesa, magnifica.
Ma dopo, non ora. Ora solo gli occhi vanno.
Ora si viaggia tra un sorso di malvasia e fragori di visione.
E c'è la battuta del barista, che si muove complice in quella distanza che ancora resiste tra gli sgabelli, col suo riempire e svuotare e porgere vetro ai clienti.
E c'è una lampada avana che colora la pelle con ambra estiva.
Viaggiare è tuffarsi nello sguardo di qualcuno e farsi portar via, restando in retina come fosse un luogo.
E quei due lo sanno fare.
E sanno che se guardi qualcuno, non sei nel suo passato, non c'eri prima, ma potrai sporcare il suo futuro con la tua faccia vista per caso una sera di festa.
Anche se te ne vai. Anche se mai si ripeterà la stessa scena in medesimo posto.
Sì, questo è andare, quando rubi sguardi per arrivare dove le gambe non potranno mai.
E poi riparti divaricando mète e vie
e poi ritorni a proprietà private di trascorsi.
Ma ora ci son solo due sgabelli e in mezzo l'universo splendido d'un abbraccio trattenuto.

Latitudini di terra che sfiora mare e mare che torna terra quando conviene.
E sei solo in un pub.
Questo è l'andare, dove si muove ciò che sembra stasi.

Esser distanza duttile tra sguardi, in danza alterna di voglie e ritrosie.
E sei solo in un pub.
Questa è l'essenza, dove si è ciò che all'altro sembra.

Sono belli, quei due.
Sanno di complici alleanze da creare, sanno di aromi di birra e di vino, della musica che li avvolge.
Ridono al barista che fa da ponte tra due sponde.
Io li lascio così, sospesi nella possibilità d'una distanza che cede ed avvicina i confini.
Li lascio perché io non c'entro in quello spazio tra due sgabelli, lo osservo soltanto dal mio angolo di mondo.
Esco.
Minaccia un temporale.
La pioggia sta per cadere:
un altro viaggio,
stavolta di cielo
che precipita a terra
e in ogni goccia
l'azzurro scende
e solo resta
negli occhi delle cose.
Tu, nel mezzo, puoi solo bagnarti.

E io l'ombrello non lo voglio.